La rilevanza della condotta “abnorme” ed “esorbitante” del lavoratore nell’accertamento della responsabilita’ sugli infortuni sul lavoro

Rivista Confindustria Catanzaro Informa, anno XII, n. 1

L'evoluzione normativa della sicurezza sui luoghi di lavoro ha mantenuto fermo il principio secondo il quale il datore di lavoro riveste la funzione di principale garante della sicurezza nei confronti dei lavoratori, avendo egli il dovere di salvaguardarne l'incolumità fisica e morale.

Sotto il profilo civilistico, l'architrave del sistema prevenzionistico secondo cui sul datore di lavoro vige ad ampio raggio l'obbligo di impedire ogni evento dannoso in capo al suo dipendente, ivi compreso quello che potrebbe derivare da disattenzione del lavoratore è da ricondurre, in particolare, all'art. 2087 del codice civile, secondo cui l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tale norma, in origine, aveva una copertura talmente ampia tanto da essere ritenuta applicabile anche a vicende infortunistiche in cui veniva ravvisato il comportamento negligente o imprudente del lavoratore.

Portando al limite tale orientamento, in alcune pronunce della Cassazione si è perfino arrivati a stabilire che il dipendente, considerate alcune sue condotte come rischi sempre prevedibili, deve essere, dal datore di lavoro, protetto dagli infortuni anche contro la sua stessa volontà . Era, cioè, sufficiente che l'evento dannoso si fosse verificato a causa dell'omessa adozione di alcune misure imposte all'imprenditore, dovendo, egli, controllare fino all'estremo rigore che tutte le precauzioni fossero rispettate dai lavoratori.

La giurisprudenza ha sempre interpretato l'art. 2087 c.c. come una norma a carattere generale reputando, pertanto, la sua ratio applicabile sia al sistema civilistico che a quello penalistico.

Non è azzardato asserire che buona parte del sistema normativo dedicato alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro costituisca un "micro sistema penale" in cui rientrano norme codicistiche e norme di legislazione speciale; a fronte di ciò anche nell'attribuzione della colpa penale vi è una comune utilizzazione di categorie giuridiche che costituiscono punti di riferimento nella valutazione delle vicende infortunistiche.

In tale ambito la norma fondamentale per stabilire se la condotta del datore di lavoro abbia avuto efficienza causale nell'infortunio accorso al dipendente è l'art. 41 del codice penale a tenore del quale il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione o omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento.

L'art. 2087 c.c. e l'art. 41 c.p., rappresentano dunque imprescindibili punti di riferimento per la configurazione o meno della responsabilità del soggetto garante per eventi lesivi subiti dai dipendenti sui luoghi di lavoro.

Anche nel giudizio penale, ancor più di quello civile, soprattutto in passato, vi è stata la tendenza a riconoscere la condizione di debolezza del dipendente a fronte di una posizione di garanzia forte del datore di lavoro in virtù della quale vi era un obbligo di proteggere il prestatore di lavoro da tutti gli eventi dannosi che potevano derivargli, ivi compresi quelli scaturiti da una condotta imprudente.

Alla luce di siddetto orientamento, che imponeva una vigilanza assoluta da parte del datore di lavoro, la condotta negligente del lavoratore, nella gran parte dei casi, veniva intesa, ai sensi del citato 1° comma dell'art. 41 del codice penale come una mera concausa dell'incorso infortunio, non sufficiente ad escludere il rapporto di causalità fra l'omissione e l'evento. In buona sostanza, in virtù della estrema "posizione di garanzia" attribuita alla figura del datore di lavoro, che imponeva il massimo obbligo di tutela, nel verificarsi dell'evento lesivo trovava applicazione il disposto previsto dal 2° comma dell'art. 40 del codice penale, secondo cui, non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Nel tempo, si è assistito ad un progressivo mutamento legislativo teso ad una maggiore responsabilizzazione dei lavoratori, i quali sono oggi chiamati a svolgere un ruolo attivo nel sistema di prevenzione degli infortuni connessi all'attività lavorativa.

Il Testo Unico 81 del 2008, modificato dal più recente D.Lgs 106 del 2009, ponendo l'accento sul principio di autotutela, secondo cui ogni lavoratore deve curare la propria incolumità, considera, infatti, i lavoratori non più soggetti passivi, ma soggetti attivi della sicurezza; ciò significa che la sicurezza non dovrà più essere gestita dai soli organi apicali, ma dovrà consapevolmente essere anche attivata dalla base. Non a caso la stessa normativa di settore, nella prospettiva di creare un ambiente di lavoro sicuro, prevede anche una serie di obblighi in capo ai lavoratori che se non rispettati comportano, a loro carico, delle sanzioni di non poca rilevanza.

La linea di tale evoluzione normativa è stata accompagnata da un mutato atteggiamento giurisprudenziale che, attualmente, più che in passato, attribuisce rilevanza alla condotta colposa del dipendente nell'accertamento della responsabilità per l'infortunio accorso nello svolgimento dell'attività lavorativa. Ogni dipendente, pur ancora tutelato dal suo datore di lavoro dal rischio infortuni, dovrà fasi carico del rispetto di tutte le regole che impongono diligenza e prudenza nello svolgimento dell'attività lavorativa, cosicchè tale sistema collaborativo consenta di assicurare un reale dominio su tutte le fonti di pericolo.

Il datore di lavoro per scongiurare legittimamente la configurazione di sue responsabilità per eventi lesivi accorsi sul luogo di lavoro al suo dipendente potrà confidare sul c.d. "principio di affidamento", secondo cui ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell'attività che di volta in volta viene in questione ed in virtù del quale ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta .

In presenza della suddetta situazione potrà essere rivisitato l'obbligo di sorveglianza e la posizione di garanzia del datore di lavoro, in termini tali da escludere l'efficacia causale secondo la previsione del 2° comma dell'art. 41 del codice penale a tenore del quale, le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento.

La tendenziale apertura verso una maggiore rilevanza della condotta colposa del dipendente tiene conto di una serie di fattori interagenti, tra cui il comportamento imprudente, negligente e disattento dello stesso lavoratore.

Cercando di conciliare le legittime esigenze di tutela del lavoratore con quelle di garanzia del soggetto che ha l'obbligo di vigilanza, si sta sviluppando la tendenza a ritenere interrotto il nesso di causalità tra l'omissione del soggetto apicale e l'infortunio in presenza del comportamento c.d. "abnorme" e di quello "esorbitante" del lavoratore.

I due criteri dell'esorbitanza e dell'abnormità della condotta del lavoratore, idonei a neutralizzare la rilevanza efficiente alla verificazione dell'infortunio, pur essendo caratterizzati dal comune dato dell'imprevedibilità, presentano parametri di accertamento differenti e dovranno essere valutati caso per caso.

Il lavoratore incorrerà in esorbitanza della sua condotta allorquando, avventatamente e senza averne ricevuto direttive, porrà in essere, sul luogo di lavoro, dei compiti non propri o delle mansioni che non gli sono state affidate e nemmeno connesse alle proprie competenze; sicchè, nel caso in cui il dipendente si dedicherà di propria iniziativa ad utilizzare un altro macchinario, o si recherà in un altro settore dell'azienda, il tutto esorbitando dalle sue competenze, tale comportamento, in caso di infortunio potrebbe integrare la causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento ai sensi del citato comma II dell'art. 41 del codice penale.

Su una vicenda confacente, in cui il dipendente si è avvalso di un mezzo improprio, nonostante fosse presente il mezzo proprio, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta tenuta dal lavoratore era da ritenere del tutto imprevedibile, determinando, pertanto, un rischio non governabile da parte del datore di lavoro, tanto da conferire forza eziologia esclusiva alla condotta imprudente .

Tale comportamento è stato ritenuto talmente arbitrario da rientrare nella c.d. "area di rischio" ossia una area avente ad oggetto attività estranee a quelle conferite dal datore di lavoro. Peraltro, nel caso di specie, il Supremo Collegio, dilatando il significato di "esorbitanza" ha evidentemente fatto rientrare nell' "area di rischio" non soltanto la condotta tenuta dal lavoratore al di fuori delle sue mansioni ma, altresì, la condotta tenuta nell'esercizio delle proprie incombenze ma con modalità talmente eccezionali da creare una situazione di rischio del tutto nuova ed imprevedibile che fuoriesce dalla dominabilità del datore di lavoro. In questo caso l'evento lesivo non è più riconducibile all'omissione del datore di lavoro, ma ad un fattore causale autonomo che è la condotta colposa del lavoratore .

Affinché possa essere invocata l'efficacia esimente del comportamento abnorme da parte del lavoratore sarà invece necessario sottoporre la vicenda infortunistica ad un vaglio più rigoroso, poiché, trovandosi al cospetto di eventi lesivi verificatisi nell'ambito delle mansioni affidate, si dovrà incontestabilmente anche provare di aver adempiuto a tutto quanto dettagliatamente previsto dalle norme antinfortunistiche anche sotto il profilo della prevenzione tecnica intesa come adeguamento degli impianti ai ritrovati tecnologici del momento storico.

Tra gli altri obblighi imposti dalla normativa di settore, che, se assolti, potrebbero far emergere una condotta abnorme tenuta dal dipendente, si rammentano: il dovere di prevenzione informativo e formativo, che impone di rendere edotti i lavoratori dell'uso corretto di tutti gli strumenti a loro disposizione; il dovere di vigilare affinchè la normativa antinfortunistica venga osservata dai dipendenti. Ciò ottemperato, l'esimente della causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, e, dunque, l'esclusione della responsabilità del datore di lavoro, potrà essere invocata se l'infortunio si è verificato a seguito di una modalità di esecuzione tale da creare una situazione di rischio nuova rispetto alla mansione lavorativa a cui si era preposti che il datore di lavoro non poteva prevedere e, pertanto, non evitabile. Assumerà, cioè, valore interruttivo del rapporto di causalità la condotta del lavoratore tenuta al di fuori delle sue specifiche mansioni e quella assunta in violazione delle direttive ricevute ovvero quella che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte del datore di lavoro preposto alla vigilanza.

L'evoluzione valutativa evidenzia un tentativo di ricondurre ad equità il dilemma dell'esigenza di tutela con quello dell'obbligo di garanzia.

Ciò detto, occorre però ribadire che il datore di lavoro, a sua discolpa, non potrà mai invocare la condotta imprevedibile del lavoratore se egli non ha ottemperato a tutte le prescrizioni che la normativa di settore gli impone e che sono finalizzate, proprio, ad evitare il comportamento esorbitante ed abnorme del suo dipendente.

Viceversa, se risultano essere state precedentemente predisposte tutte le misure di cautela e forniti tutti i dispositivi di sicurezza, volti anche ad evitare che il lavoratore si avvalga di strumentazione diversa da quella imposta per legge, potrà essere invocato il comportamento esorbitante ed abnorme.

Avv. Michele Arabia