Il concorso del professionista nei reati propri dell’imprenditore e del contribuente

Rivista Confindustria Catanzaro Informa anno XI, n. 6

In linea di principio, la maggior parte dei reati societari, fallimentari e tributari sono di tipo proprio; essi possono, cioè, essere commessi unicamente dal soggetto, c.d. intraneus, che riveste una posizione qualificata (imprenditori, amministratori, direttori generali, sindaci, contribuenti, ecc..).

In taluni casi, tuttavia, chi si trova a svolgere funzioni di gestione o consulenza previste dalle leggi societarie, fallimentari o tributarie, a presidio dell'ordinario svolgimento dell'attività economica o a tutela dell'interesse patrimoniale dello Stato alla riscossione dei tributi, può ledere tali interessi in presenza o meno di una valida investitura formale, quale soggetto c.d. extraneus. E' il caso dei consulenti e dei professionisti (commercialisti, consulenti contabili, avvocati, ecc..) dai cui suggerimenti e dal supporto tecnico fornito agli imprenditori agli amministratori o ai contribuenti, può scaturire la realizzazione di illeciti. In taluni casi essi possono concorrere negli eventuali reati commessi dai clienti.

Tralasciando, la disamina della c.d. responsabilità diretta del professionista, a fronte della quale il soggetto risponderà, nell'ambito dei reati societari, come colui che ha esercitato di fatto i poteri di gestione tipici dell'amministratore di diritto in maniera continuata e significativa e, pertanto, inquadrabile come soggetto intraneus, nel presente scritto verrà, invece, analizzata la sola forma di responsabilità concorsuale, ossia quel tipo di responsabilità che vede il professionista-consulente, soggetto estraneo alla compagine sociale.

Quando i reati societari, i reati fallimentari o tributari, vedranno il coinvolgimento, sia del soggetto intraneus, sia del professionista, si applicherà la disciplina prevista dall'art. 110 c.p. in tema di "concorso di persone nel reato", secondo cui, quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. L'apporto dei singoli concorrenti può essere di carattere materiale oppure morale; quest'ultimo può manifestarsi nelle diverse forme della determinazione, istigazione o rafforzamento del proposito criminoso altrui. Affinchè ricorra la compartecipazione è necessario inoltre che il soggetto abbia fornito un contributo causale alla verificazione del fatto criminoso.

Vista la rilevanza dei compiti che nei suddetti settori vengono demandati al professionista, appare legittimo porsi il problema delle eventuali responsabilità penali in cui lo stesso può incorrere nell'espletamento della propria attività, e se tali responsabilità siano da considerare esclusive o in concorso con l'intraneus.

Uno dei principi fondamentali del diritto penale è quello della responsabilità personale. In presenza di una fattispecie delittuosa, si dovrà soggettivizzare la condotta-reato, in modo da pervenire all'attribuzione della responsabilità di chi ha commesso o non ha impedito il reato in presenza di un obbligo giuridico che altri lo commettessero. Tale necessario principio deve valere anche per il diritto penale societario, fallimentare e tributario, ragion per cui, anche in dette discipline occorre prefiggere un parametro da cui ricavare se i suggerimenti professionali offerti dai professionisti travalichino nella consulenza illecita.

Per quanto concerne i reati tributari occorre far presente come essi siano punibili soltanto a titolo di dolo e non di colpa; ciò significa che per la ricorrenza di queste fattispecie è necessario che il soggetto attivo (professionista o intraneus) si sia rappresentato ed abbia voluto porre in essere il reato.

In particolare, il professionista potrà essere chiamato a rispondere quando abbia dato intenzionalmente un qualsiasi contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del fatto delittuoso del cliente, agevolandone la condotta o determinandone o rafforzandone la volontà con un proprio comportamento cosciente e volontario; rimangono dunque escluse eventuali condotte di natura colposa, quali errori materiali o concettuali dovuti a negligenza o imperizia.

Ci si è chiesti in dottrina se per aversi concorso sia sufficiente un semplice consiglio o se sia necessario dare specifiche istruzioni sulle modalità per porre in essere il reato tributario.

Su tale versante la giurisprudenza più risalente asseriva che il mero consiglio tecnico potesse semmai costituire una semplice violazione deontologica, pretendendo un contributo più incisivo affinché si configurasse il concorso in capo al professionista.

L'orientamento più recente -tracciando una sorta di linea di demarcazione, superata la quale il professionista risponde in proprio, al limite come concorrente- si contraddistingue per aver ulteriormente puntualizzato l'argomento (Cass. n. 9916/2010): il professionista può essere chiamato a rispondere penalmente in concorso soltanto se è riconoscibile un suo comportamento concreto nella realizzazione dell'illecito.

La concretezza della condotta ricorrerà, ad esempio, se il commercialista ha provveduto personalmente a mantenere una contabilità incompleta o infedele, ha emesso fatture su operazioni inesistenti per conto del cliente o ha concorso con lui a macchinare gli artifici per supportare una dichiarazione fraudolenta. Viceversa, qualora la consulenza professionale sia consistita nell'indicare alternative ad una condotta incriminata dalla legge, quale comodo espediente non in contrasto con la legge penale, tale comportamento non implicherà nè l'istigazione né il concorso.

Sussistono dei casi in cui il professionista fiscale si adopera in un modus operandi in cui non ricorre la colpevolezza dell'intraneus.

In parziale contrasto con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'istituto della delega di funzioni non è idoneo a traslare gli obblighi tributari, dal momento che questi sono e rimangono obblighi personali del cliente, alcune sentenze hanno affermato la esclusiva responsabilità del professionista, (e non ad es. dell'imprenditore o del contribuente) per omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali dei propri clienti quale autore mediato di tali omissioni, avendo indotto in errore i clienti stessi circa l'avvenuto adempimento degli obblighi tributari.

Si è per esempio indicata la esclusiva responsabilità del commercialista che era stato incaricato di tenere le scritture contabili e di presentare le dichiarazioni e che aveva, invece, omesso la presentazione delle dichiarazioni IVA a mezzo di una condotta idonea ad indurre in errore la titolare della società interessata, sulla circostanza che questi avesse correttamente adempiuto agli obblighi tributari gravanti sulla società e ad esso delegati; il tutto in misura tale da far ritenere alla medesima di essere in regola nei confronti del Fisco.

Si tratta di ipotesi in cui si è ritenuto, da un lato, che non ricorre la colpevolezza del cliente delegante dal momento che questi non era a conoscenza della violazione da parte del delegato-professionista, dall'altro, si inserisce un quid pluris estraneo alla delega di funzioni, ossia la condotta fraudolenta del delegato.

Ad ulteriore sostegno di una sorta di scriminante in capo al cliente, si può aggiungere che in materia tributaria, data la complessità degli oneri fiscali, la mole e la mutevolezza della disciplina, il legislatore ha ritenuto opportuno ribadire il principio della scusabilità dell'ignoranza inevitabile della legge.

Anche in materia di reati fallimentari, e più specificamente in tema di bancarotta, è pacifica l'opinione secondo la quale terzi soggetti possano concorrere con l'intraneus nella consumazione del reato, di tal che troverà applicazione la disciplina del concorso di persone, ed il terzo professionista sarà punibile ove abbia offerto un contributo necessario o agevolatore alla realizzazione del reato che abbia il requisito della concretezza.

Il concorso del commercialista, dell'avvocato o del consulente fiscale nei fatti di bancarotta ricorrerà in termini di concretezza quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell'imprenditore o degli amministratori della società, forniscano consigli sui mezzi giuridici idonei a sottrarre beni ai creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire l'impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l'altrui proposito criminoso (Cass. sez. V, 12.01.2004, n. 569, rv 226973 CED).

Sul tema la giurisprudenza del Supremo Collegio si è posta, tutto sommato, in linea di continuità negli anni.

Da una pronuncia della V° Sezione pubblicata il 1 agosto 2011 (n. 30412/11) si ricava che si configura l'ipotesi concorsuale con l'intervento del professionista, che insieme all'amministratore della società provvede alla manomissione patrimoniale consistita nella cessione mascherata degli immobili, dietro cui si celano vendite simulate e l'incasso del denaro scaturito dalle dismissioni.

Il commercialista, insomma, risponde del reato di bancarotta in concorso con l'amministratore purché, pur terzo rispetto alla società fallita, contribuisca a realizzare un segmento efficace del risultato illecito.

Anche in tal caso, ad avviso di chi scrive, il contributo concreto fornito dal professionista traccia la linea di demarcazione tra consulenza lecita ed illecita.

Sul punto appare interessante l'opinione offerta da una Commissione nominata dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti per lo studio dei problemi di diritto penale dell'economia (Il giornale dei Dottori Commercialisti 1988, 4, 43), che ha stabilito che non vi sarà responsabilità a titolo di concorso, quando il dottore commercialista si trovi ad operare su elementi forniti esclusivamente dal cliente. In particolare, se le inesattezze e le falsità dei dati non sono conosciute, né riconoscibili dal professionista sarà solo il cliente a rispondere dell'eventuale reato.

Su tale solco interpretativo si è ritenuto come non vi sia responsabilità penale allorchè il consulente si limiti a prospettare diverse soluzioni giuridiche, illustrandone anche i pro ed i contro sotto il profilo penale, per consentire poi al cliente di autodeterminarsi liberamente con cognizione di causa; questa attività, infatti, rientra nell'ambito dei servizi professionali ad esso propri e la circostanza che il consulente sia consapevole di quanto, successivamente, deciso dal cliente costituisce una connivenza priva di rilevanza, non avendo questi alcun dovere di impedire il reato (G. Soana, I reati tributari, Giuffrè 2009).

Con riferimento ai reati societari, ed in particolare al reato di falso in bilancio, l'ipotesi che più frequentemente vede la responsabilità del professionista ricorre quando questi predispone, prima della redazione e presentazione del bilancio, i dati relativi alla contabilità aziendale in modo tale da supportare la falsa rappresentazione della realtà sociale offerta dal bilancio stesso. In tale situazione egli ha la pregressa conoscenza della falsità dei dati e risponderà in concorso con gli amministratori della società.

Sovente, a discolpa dell'operato del professionista viene addotto che egli non fosse a conoscenza della falsità dei dati. In tale circostanza la responsabilità degli elementi fittizi iscritti in bilancio sarà da ricondurre in capo all'amministratore reticente secondo il combinato disposto di cui agli artt. 47 e 48 c.p., secondo cui "l'errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell'agente..",".. se l'errore sul fatto che costituisce reato è determinato dall'altrui inganno .. del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo".

Ovviamente, affinché operi la scriminante si dovrà trattare di dati la cui falsità non possa essere palesemente rilevata dal professionista, poiché in caso contrario egli potrà essere ritenuto consapevole della non veridicità delle informazioni fornite dall'amministratore che sono state acriticamente riportate in bilancio.

L'estraneità del professionista al reato di false comunicazioni sociali sarà inoltre ravvisabile se questi viene a conoscenza della falsità dei dati successivamente alla consumazione del reato. In tal caso, non rivestendo alcuna posizione di garanzia, ossia non avendo alcun dovere di impedimento giuridicamente rilevante, il professionista non correrà il rischio di essere considerato penalmente responsabile per l'attività consulenziale successivamente prestata, sempre che la consulenza medesima non presenti gli obbiettivi minimi del concorso, o, se antecedentemente promessa, non abbia rafforzato il proposito di delinquere da parte del cliente. Caratterizzata nei suddetti termini l'attività prestata successivamente al deposito del bilancio sarà da considerare connivenza non punibile.

In conclusione, l'opportuna chiave di lettura per ritenere, o meno, configurabile la responsabilità del consulente professionista si rintraccia nel grado di concretezza del suggerimento illecito fornito al cliente e da questi eventualmente utilizzato per commettere il reato. Tale linea di demarcazione contraddistinta dall'aver, o meno, offerto la via per adottare l'espediente contra legem, deve rappresentare un punto fermo al fine di garantire il sereno esercizio della professione, che potrebbe essere soffocata nel caso in cui in tale disciplina si giungesse ad una sproporzionata dilatazione del concetto di responsabilità.

Avv. Michele Arabia